Tra qualche giorno mio padre avrebbe compiuto 92 anni.
Quando morì la prima cosa che feci fu di rileggermi il suo diario di guerra, miracolosamante arrivato incolume fino agli anni duemila, nonostante il continuo scartabellare e passare di mano attraverso gli anni.
Leggevo le vicende di mio padre soldato e cercavo di immaginarmelo da ragazzo, costretto come migliaia e migliaia di altri ragazzi della sua età a partecipare e a combattere in una guerra senza senso.
Cercavo anche di immaginare il suo ritorno a casa, in un'Italia devastata dalla guerra e tutta da ricostruire.
Poi mio marito ha messo mano al diario e l'ha completamente riscritto a computer - di questo gli sarò sempre grata - e quindi la lettura divenne più agevole.
Un giorno mi è venuto in mente di scrivere un piccolo racconto, nel quale mi immagino lo stato d'animo di mio padre al ritorno dalla guerra.
E' stato il mio modo per ricordarlo e per sentirlo vicino.
Ve lo propongo qui di seguito; le parti in grassetto sono quelle che si riferiscono al diario; alcune sono originali del diario, altre le ho modificate.
IL
RITORNO DEL SOLDATO
E’ un giovane uomo : avrà
ventiquattro , venticinque anni.
Cammina faticosamente nella sua
uniforme sporca e scolorita.
Il suo viso è dello stesso colore
dell’uniforme: pallido, sporco, uno sguardo da sconfitto, ma con un
luccichio negli occhi.
Sul viso corrono innumerevoli piccole
rughe.
Dicono che la guerra trasformi i
giovani in vecchi ; i bombardamenti , la paura e gli stenti diventano
dei luoghi visibili sulla cartina geografica di ogni viso.
L’uomo cammina e si guarda intorno;
un piccolo sorriso timido appare sulle sue labbra e sembra spianare
le rughe e la stanchezza.
La strada che va da Palazzolo a Varedo,
dispersa in mezzo alla campagna, è piena di ciottoli e fango, ma per
il ragazzo è la strada più bella del mondo…
Dopo la lunga pioggia il terreno è
umido e profumato, gli alberi ed i campi intorno brillano di un color
verde smeraldo , ma il giovane soldato cerca solo una cosa con lo
sguardo.
Il cuore fa un balzo nel petto quando,
da lontano, appare la sagoma familiare del campanile di Varedo.
“Eccoti qua!” – esclama Enrico
sorridendo –“Finalmente ti rivedo!”
Sente che una lacrima gli sta per
scendere dalla guancia, ma si fa forza – è un soldato, che
diamine!- e tira avanti trascinandosi sulle spalle il pesante zaino ;
nel cuore la pesantezza di cinque anni di guerra e di lontananza da
casa.
Si ferma e si guarda indietro: il
pullman che li ha portati fin lì a lui, al Taran e all’Angelo, si
è già dileguato da un pezzo.
Improvvisa una sensazione di
struggimento: ha lasciato dietro le spalle i suoi compagni e già
sente la mancanza delle risate del Taran, degli scherzi dell’Angelo
e delle voci e dei lamenti di tutti gli amici che ha incontrato in
tutti questi anni.
Poi guarda avanti , rivede il campanile
e riprende la sua strada verso casa.
Ad un tratto si ferma , si toglie di
dosso lo zaino, si appoggia ad un muro.
Dentro di sé un’esplosione di rabbia
, quasi insopportabile.
Gli hanno rubato la giovinezza e solo
ora se ne accorge veramente,ora che il suo paese sembra accoglierlo
da lontano.
Ricaccia indietro la bestemmia che gli
stava nascendo sulle labbra, tocca la tasca laterale dello zaino
prima di rimetterselo per accertarsi che il suo diario sia lì e
riprende a camminare a passo svelto.
L’idea di scrivere un diario era nata
per puro istinto di sopravvivenza; a cosa si può attaccare un
ragazzo di diciannove anni che parte per la guerra sapendo che
potrebbe morire?
Lui si era attaccato alle parole, a
quell’arte in cui era stato sempre così bravo da meritare gli
elogi della maestra e da spingere la madre, donna semplice ma
intelligente, a tenerlo in casa il giorno dell’esame di quinta
elementare per farlo bocciare.
Sì sì , proprio per farlo bocciare!
Si era messa d’accordo con la maestra.
Il destino di Enrico era quello di
cominciare a lavorare nei campi a undici anni, come tutti gli altri
ragazzi; bocciarlo avrebbe significato farlo studiare ancora per un
anno.
La mamma aveva portato un salame intero
alla maestra per convincerla a bocciare il suo migliore allievo .
Enrico sorrideva tra sé e sé : non
vedeva l’ora di riabbracciare mamma Ersilia.
Natale 1940
Proprio oggi, proprio il giorno di
Natale , ho ricevuto la maledetta cartolina e mi devo presentare al
distretto – destinazione Venaria Reale, Torino.
Sento una rabbia terribile dentro-io
con questa guerra non c'entro niente, non mi appartiene, così come
non appartiene alle altre migliaia di ragazzi, sì perchè siamo
tutti ragazzi, che in questo momento stiamo partendo o siamo già al
fronte.
Non so quanto resterò via di casa ,
ma la sensazione è che la mia giovinezza stia partendo insieme al
treno che mi porta a Torino...
Enrico è arrivato in centro a Varedo:
è quasi mezzogiorno e le strade sono vuote: sono tutti a pranzo.
Arriva in fondo a Via Madonnina e
davanti a lui vede la grande chiesa parrocchiale. Sul muro che la
divide dalla villa Medici c’è qualche manifesto strappato, che
viene mosso da un leggero venticello.
Il ragazzo rimane qualche istante ad
osservare quelle scritte come ipnotizzato.
Legge e rilegge nella sua mente i
titoli dei manifesti e subito se li dimentica e deve tornare a
leggerli.
Tutto gli appare irreale, lontano.
E' già tornato qualche volta in
licenza a casa, ma era sempre stato tutto provvisorio, qualche giorno
e poi via di nuovo al fronte.
Adesso sarà per sempre, adesso la vita
ricomincia e qui sembra che la guerra non sia neppure passata.
A ben pensarci sembra tutto un sogno.
Enrico si ferma in piazza della chiesa,
si accenda una sigaretta e tergiversa.
Da una parte non vede l'ora di essere a
casa, dall'altra ha una grande confusione in testa; cosa lo aspetta?
Cosa farà adesso senza i suoi amici? E soprattutto dove va a
riprendere quegli anni che non ha vissuto?
Ho saputo che il mio amico Pasquale
è a Novara.
Mi manca la sua amicizia, mi mancano
le risate anche se qui , a Manduria , ho trovato molti altri amici.
Due in particolare sono
particolarmente simpatici: l'Angelo e il Giuseppe, chiamato Taran.
Con loro mi sono fatto già qualche
giorno di prigione a causa di una sbornia impressionante.
Qui la vita è dura e quando si può
ci si sfoga un po’.
La cosa più memorabile è stata la
settimana di licenza del comandante all'inizio di Novembre.
“Via il gatto i topi ballano”-ed
in effetti abbiamo trascorso una settimana da cuccagna: baldoria fino
alle prime luci dell'alba, grandi cene con gli ufficiali,
innaffiate da grandi quantità di vino, giochi e risate.
(fine prima parte)
racconto di Luciana Figini