Enrico rilegge ancora una volta quello
aveva scritto l’8 di settembre e la stessa rabbia sembra di nuovo
assalirlo.
Prende una matita ed un foglio e si
mette a scrivere .
Quel cretino del Dante dice che
il merito della liberazione d'Italia è solo degli alleati e dei
partigiani.
E noi chi siamo?
Secondo lui siamo solo dei
voltagabbana, che prima stavano col Duce e poi contro i tedeschi.
Mi viene una rabbia: proprio lui
parla di queste cose, lui che è stato riformato non si sa bene per
quale motivo, lui che non sa neppure cosa sia la guerra, perchè l'ha
passata tutta a casa.
Eppure queste cose non le dice
solo il Dante: su tutti i giornali , in tutti i discorsi si inneggia
ai partigiani, si esaltano gli alleati, si accolgono con tutti gli
onori gli internati dei campi di concentramento.
Tutte cose giuste e
sacrosante...ma noi chi siamo?
I giornali non ne parlano,le
persone che ti incontrano, quando sanno che eri un soldato, ti
guardano in modo strano,quasi diffidente.
Non mi sono mai sentito un eroe
di guerra, ma non avrei mai pensato di sentirmi un traditore, di
essere denigrato o, quando va bene, non considerato.
Eppure le popolazioni dei paesi
che abbiamo liberato quando ci vedevano erano entusiaste, ci
portavano in casa loro, ci offrivano tutto ciò che possedevano, ci
dimostravano un'enorme gratitudine.
Io dentro sento un rancore sordo
ogni volta che si tocca l'argomento.
Anche in famiglia non riesco a
sfogarmi : loro non vogliono più sentir parlare di guerra, cercano
di cambiar subito discorso.
Ed io rimango con la mia bestia
nel cuore.
“Povero tenente Senadei!”-
penso - “sei diventato cieco per niente!”
E’ sabato notte ed Enrico è appena
tornato dall’osteria , sale le scale un po' a fatica, barcolla.
-Chisà che ora è?- pensa Enrico,
mentre, sconfitto dalle gambe che non ne vogliono sapere di
camminare, si siede su un gradino e si accende una sigaretta.
A lui la notte non fa paura; ha l’anima
del pipistrello.
Si mette a ridere tra sé e sé quando
sente un sonoro russare provenire dalla porta vicina: le zie Paola e
Bina stanno “resegando bene”.
Sorride tra una boccata di sigaretta e
l’altra , pensando alle due zie .
Enrico è circondato da parenti e
amici; la sua piccola attività di falegname sta ingranando e gli sta
cominciando a dare qualche soddisfazione…eppure ci sono cose che
può raccontare solo a pèochi amici all'osteria.
Nessuno vuole sentire più parlare di
guerra e poi ci sono quelle sensazioni di angoscia che non lo
lasciano in pace...
Da lontano passa un uomo in bicicletta;
torna a casa dall’osteria e canta a squarciagola.
Enrico lo riconosce subito dalla voce:
è l’Aquilino, quello che è tornato dalla Germania a piedi dopo
essere scappato da un campo di prigionia.
Enrico si alza , pensa a tutti quelli
che hanno avuto vita molto più dura di lui, a tutti gli amici che
non sono più tornati e si avvia verso casa con una lacrima negli
occhi che non si decide a scendere…
Giornate terribili, ma cominciamo
a capire che la fine sta arrivando.
Vicino a Corinaldo si spara a
tutto spiano: i tedeschi sono vicinissimi, ma ormai non hanno più
scampo.
Dopo essere riusciti ad avanzare
arriviamo ad Urbania: anche qui distruzione ovunque.
Ponti e ferrovie, persino alberi
fatti saltare dai tedeschi.
Negli occhi ho così tanta
distruzione e disperazione che a volte non riesco a sopportarne il
pensiero.
Poco prima della fine della
guerra mi viene finalmente concessa una licenza.
Sono agitatissimo, prendo il
primo treno e parto per Milano.
Lungo il tragitto desolazione e
distruzione ovunque.
Chi si sarebbe mai immaginato
tutto questo?
Penso con angoscia alla mia
famiglia – saranno ancora vivi? Staranno bene?
Sono mesi che non ricevo loro
notizie.
Penso a Mussolini e all'incubo
nel quale ha fatto entrare l'Italia.
Mentre passiamo per un paese
completamente raso al suolo sento dentro di me un odio sordo verso
di lui e verso tutti quelli che lo hanno appoggiato.
Il giorno dopo sono a Varedo.
Il paese è ancora tutto intero,
sembra non sia successo nulla.
Mi fermo qualche minuto alla
stazione e scoppio in un pianto liberatorio: sono tutti lì , ad
aspettarmi alla stazione.
Sa Dio come hanno fatto a
saperlo.
Tra qualche giorno dovrò tornare
al fronte ma mi sono tolto un peso enorme dal cuore.
Sono passati ormai molti mesi da quando
Enrico è tornato dalla guerra.
A poco a poco, lui che è appassionato
di attualità e storia, è venuto a sapere di tutta la distruzione e
l'orrore che la guerra aveva portato ovunque.
Sui giornali scorrono le foto della
Francia, dell'Inghilterra , dell'Italia, della Germania.
L' Europa intera è devastata eppure
bisogna ricominciare.
La maggior parte della gente cambia
discorso quando lui comincia a parlare dei cinque anni di guerra.
Allora lui prende la sua sigaretta,
esce di casa e si fa un giro in mezzo ai campi.
Spesso si siede in mezzo a un campo o
sotto un albero e parla da solo.
Spesso vede davanti a sé le immagini
dei compagni morti e piange sommessamente.
Poi si mette ad ascoltare i grilli , le
voci lontane di mamme che richiamano i bambini o gli scoppi di risa
di gente seduta in cortile a raccontarsi cose divertenti .
Allora finisce la sigaretta , si alza
lentamente e si riavvia verso casa.
Dentro di sé il brontolio del passato
non si placa ancora e sa che ribollirà ancora per anni, ma sa di
avere davanti a sé tutta una vita da costruire, tutta una vita da
vivere ancora e allora, quasi non volendolo, sorride leggermente ,
come quel giorno sulla strada da Palazzolo a Varedo.
Gira l’angolo e rivede il suo
campanile: lui è lì , fermo e placido, sembra quasi guardarlo ,
sembra quasi dargli coraggio.
Enrico si mette a fischiettare un
motivetto e sente che qualcosa di nuovo sta nascendo dentro di lui: è
qualcosa di piccolo, ancora in embrione, una specie di speranza
abbozzata, un puntino di futuro in mezzo al cuore, ancora troppo
lieve per riuscire a percepirlo pienamente… ma è lì, sta mettendo
radici, gli farà compagnia insieme al fumo delle sue sigarette…
FINE
...ciao papà...
racconto di Luciana Figini
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